Il Nuovo Diritto delle SocietàISSN 2039-6880
G. Giappichelli Editore

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Il giudizio di fattibilità del piano di concordato pre ventivo nella recente giurisprudenza della Suprema Corte (di Gianpaolo Ciervo)


Si intendono esaminare in questa sede le più recenti tendenze dottrinali e giurisprudenziali in tema di limiti del sindacato giudiziale sulla fattibilità del piano di concordato preventivo, alla luce dell’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte e della recente giurisprudenza di legittimità e di merito in tema.

1. I limiti del sindacato giudiziale nel concordato preventivo. Una delle questioni più dibattute dai teorici e dai pratici del diritto fallimentare è, senza dubbio, quella concernente il ruolo attribuito dal legislatore all’autorità giudiziaria nelle varie fasi della procedura di concordato preventivo[1]. In particolare, ci si interroga da tempo su quali siano - e quali debbano essere - i limiti del sindacato del giudice sulla fattibilità del piano di concordato nelle diverse fasi della procedura. Come è noto, il controllo del tribunale perdura per tutta la durata della procedura di concordato preventivo, dalla fase dell’ammissione (artt. 161, 162 e 163) a quella dell’omologa (art. 180) e nel corso della procedura stessa nella persona del giudice delegato (art. 173). Prima dell’intervento della Suprema Corte a Sezioni Unite nel 2013, tuttavia, non vi era uniformità di orientamenti tra gli interpreti sulla natura e sull’intensità di tale controllo. Un primo orientamento escludeva qualsiasi sindacato sostanziale sulla fattibilità del piano da parte del giudice e ammetteva soltanto un controllo formale sulla completezza e regolarità della documentazione allegata alla domanda (c.d. controllo di legalità formale o controllo documentale). Nettamente contrapposto al primo, un secondo orientamento attribuiva al tribunale il potere di effettuare un vero e proprio giudizio di merito sulla fattibilità del piano, anche attraverso la verifica diretta della correttezza del giudizio di fattibilità formulato dall’asseveratore (c.d. controllo di merito). Una tesi intermedia, poi, attribuiva al professionista attestatore il giudizio sulla veridicità dei dati e sulla fattibilità del piano, e al tribunale un controllo indiretto sulla coerenza, logicità e completezza della relazione del professionista (c.d. controllo di legittimità sostanziale)[2]. Le conseguenze dell’adesione all’uno o all’altro orientamento erano (e sono tuttora) rilevanti. Da un lato, i fautori del c.d. controllo di merito ritenevano che il giudice potesse acquisire direttamente i dati aziendali e confrontarli con quelli contenuti nella asseverazione per pervenire ad un autonomo giudizio sulla veridicità degli stessi e sulla fattibilità del piano. Dall’altro, i sostenitori del c.d. controllo di legittimità sostanziale limitavano il sindacato del giudice alla verifica dell’idoneità della documentazione prodotta e, in particolare, dell’attestazione a garantire una decisione informata e consapevole dei creditori sulla proposta di concordato in sede di votazione[3]. Proprio partendo da quest’ultimo orientamento, iniziava a delinearsi tra gli interpreti l’idea che il legislatore avesse inteso stabilire una precisa suddivisione delle competenze all’interno della [continua..]

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