Il saggio esamina la sentenza 6 maggio 2019, n. 18827 della Corte di Cassazione, sezione IV penale, con la quale è stato affermato che la responsabilità del socio unico in concorso con gli amministratori per reati dichiarativi non può derivare dalla sua mera qualifica, poiché devono necessariamente essere ravvisati tutti gli elementi richiesti dall’articolo 110 c.p.
The Court of cassation takes another look at the liability of a shareholder by association with the managers who committed a criminal offence in the filing of the tax return The paper examines the decision n.18827/2019 of the Italian Supreme Court, IV criminal division, which stated that shareholders are not automatically liable by association with the managers who committed a criminal offence in the filing of the tax return of the company. More specifically, the Italian Supreme Court stated that, in this case, the shareholders’criminal liability depends on whether all the elements provided for under article 110 of the Italian criminal code are fulfilled.
1. Nonostante l’utilizzo del pronome “chiunque”, non vi sono dubbi circa la natura di reato proprio delle fattispecie incriminatrici tributarie in materia di dichiarazione, le quali possono essere contestate solo a chi riveste la qualifica di contribuente[1]. Tale circostanza non esclude che, ai sensi dell’art. 110 c.p. (“Concorso di persone”), anche altri soggetti (diversi dal firmatario della dichiarazione o da chi è obbligato alla presentazione della stessa) possano concorrere nella condotta commissiva od omissiva dell’autore del reato, laddove abbiano effettivamente fornito un contributo di ordine materiale o morale.
La giurisprudenza, proprio facendo ricorso alla figura del concorso di persone, è arrivata così ad estendere la punibilità di tali reati ad altri soggetti, quali l’amministratore di fatto, il componente del consiglio di amministrazione non firmatario della dichiarazione o il consulente della società [2]. La sentenza in commento riguarda invece un’ipotesi differente, ossia quella della possibile punibilità, per un reato tributario, del socio unico di società di capitali, chiamato a rispondere a titolo concorsuale unitamente al rappresentate legale ed ai soggetti ritenuti gestori di fatto della società.
2. La pronuncia interviene in una vicenda cautelare in cui l’indagata veniva incolpata – per quanto qui di interesse – dei reati di dichiarazione infedele ed omessa dichiarazione, ai sensi degli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 74/2000, perché – al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto – effettuava la commercializzazione di prodotti petroliferi acquistati con false dichiarazioni d’intento, da depositi fiscali, attraverso società createad hoc, accreditate come operanti in regime di cessione all’esportazione e, quindi, solo formalmente autorizzate ad acquistare in regime di esenzione di IVA. A seguito della conferma del decreto di sequestro preventivo da parte del Tribunale del Riesame, la Corte di Cassazione annullava l’ordinanza, impugnata dal difensore dell’indagata, con rinvio al tribunale per un nuovo vaglio.
In particolare, la Suprema Corte, dopo aver ricostruito il delitto ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000 in termini di reato proprio omissivo [3], riteneva la motivazione del tribunale viziata in diritto, in quanto ricollegava alla sola qualità di socia dell’indagata “l’obbligo di presentazione della dichiarazione, senza alcun riferimento in ordine all’eventuale sussistenza del concorso di persone del reato” (Cass. pen., sez. III, n. 40329/2018).
In ragione di una seconda conferma da parte del Tribunale del Riesame, nuovamente il legale dell’indagata presentava ricorso per cassazione, lamentando una violazione di legge ed un vizio motivazionale (art. 606, lett. b) ed [continua..]