Nonostante la riforma del diritto societario del 2003 abbia dato voce alle istanze di finanziamento dell’impresa organizzata in forma azionaria, quotata e non, l’interpretazione della disciplina sulle azioni di risparmio non si è ancora adattata del tutto al nuovo quadro sistematico, dato che permangono, anche nella prassi, applicazioni che dovrebbero oramai considerarsi superate. Tale è il punto di osservazione da cui la presente disamina muove, con l’intento di suggerire un’analisi delle azioni di risparmio che sia più coerente con le istanze sottese al moderno diritto societario e finanziario e con le esigenze degli operatori del mercato.
1. Breve excursus introduttivo. Sono trascorsi quarant’anni da quando la legge 7 giugno 1974 n. 216 – convertendo, con modificazioni, il decreto legge 8 aprile 1974, n. 95 – ha introdotto nell’ordinamento delle società quotate italiane la categoria delle azioni di risparmio, e cioè “titoli tipici dal contenuto atipico”[1] che, incorporando gli interessi degli azionisti risparmiatori, miravano ad ampliare i canali di finanziamento dell’impresa quotata attraendo l’investimento in capitale di rischio da parte di soggetti più interessati al rendimento dell’affare piuttosto che alla sua gestione[2]. All’epoca l’introduzione delle azioni di risparmio si proponeva di separare con maggiore trasparenza il ruolo (e la responsabilità) del gruppo di controllo da quello degli azionisti risparmiatori, in modo da concentrare in capo ai soci ordinari i risultati negativi derivanti dalla loro attività di indirizzo imprenditoriale e al contempo rafforzando la posizione patrimoniale degli azionisti risparmiatori a fronte dell’inesistenza di un loro potere di influenza gestoria (potere, quest’ultimo, che già mancava in concreto in capo ai piccoli risparmiatori e che, con la novella del 1974, in maniera meno equivoca di prima, veniva meno anche in astratto)[3]. Alcuni elementi tipologici delle azioni di risparmio – e, segnatamente, la totale esclusione del diritto di intervento e di voto nell’assemblea ordinaria e straordinaria dei soci, unitamente alla postergazione (oggi peraltro solo eventuale) nella partecipazione alle perdite, compensata dall’attribuzione di particolari privilegi di natura patrimoniale (in particolare nella remunerazione preferenziale dell’investimento) – hanno spinto, in passato, parte della dottrina a qualificare tali titoli partecipativi in termini di strumenti di debito, e non invece quali vere e proprie azioni di società, assimilando dunque il rapporto “incorporato” nell’azione di risparmio a quello sottostante ai contratti di finanziamento. A tale osservazione si giungeva nell’assunto che, nelle società per azioni, l’esercizio in comune di un’attività economica di cui all’art. 2247 cod. civ. si sarebbe esplicato tramite la partecipazione e l’esercizio del diritto di voto nell’assemblea ordinaria e straordinaria dei soci e quindi, in assenza di siffatte prerogative, l’investitore non avrebbe potuto assumere lo status socii, potendo invece vantare esclusivamente pretese creditorie nei confronti della società (rappresentate, appunto, dal diritto a percepire un utile privilegiato)[4]. Dubbi questi che, col passare degli anni, si sono progressivamente attenuati poiché si è fatta strada un’interpretazione più formalistica della fattispecie, e quindi una qualificazione in termini [continua..]