Il Nuovo Diritto delle SocietàISSN 2039-6880
G. Giappichelli Editore

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Voto plurimo e voto maggiorato: prime considerazioni su ricadute e prospettive (di Irene Pollastro)


Il lavoro si propone di svolgere una prima analisi degli istituti, di recente introduzione, del voto plurimo e del voto maggiorato, ponendo in luce, da un lato, le principali differenze tra loro e, dall’altro, quali siano i primi e più evidenti effetti e problemi derivanti dalla loro emissione.

1. Introduzione. Tra le più significative novità introdotte nel nostro ordinamento dall’art. 20 del Decreto Competitività 2014 (D. Lgs. 24 giugno 2014, n.91, poi convertito, con relative modifiche, dalla L. 11 agosto 2014, n.116), per la materia societaria, accanto alla considerevole riduzione dell’importo del capitale sociale minimo per le S.p.A., da 120.000 a 50.000 euro, risaltano i due istituti del voto plurimo e del voto maggiorato. Se di novità si può parlare, peraltro, lo si deve principalmente al fatto che la nuova normativa spazza via dal nostro ordinamento l’ultimo esplicito divieto ancora imposto alle società, quotate e non, in materia di attribuzione non proporzionale del diritto di voto alle azioni: già sdoganate le figure delle azioni a voto limitato o prive di diritto di voto, l’art. 2351 c.c., al comma 3, disponeva, infatti, ancora che “non possono emettersi azioni a voto plurimo”. Il comma 4 dell’attuale art. 2351 stabilisce, invece, che “salvo quanto previsto da leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Ciascuna azione a voto plurimo può avere fino ad un massimo di tre voti”. Invero, il divieto di emissione di azioni a voto plurimo permane ancora per le società quotate, che però hanno facoltà di attribuire più di un voto ad una azione tramite il similare istituto delle azioni a voto maggiorato (con il limite massimo di due voti per azione). La novità in questione è, invero, tale sotto il profilo della legislazione italiana vigente, perché gli istituti in commento erano già ben noti non solo nei dibattiti (attorno all’opportunità della loro introduzione) dei nostri giuristi nazionali, ma soprattutto nell’esperienza giuridica europea. Basta una breve indagine comparatistica che interessi gli ordinamenti a noi più vicini per rilevare che le azioni a voto plurimo sono una realtà nei Paesi Bassi, in Svezia, in Finlandia e in Norvegia, nonché nel Regno Unito e in Irlanda; quanto alle azioni a voto maggiorato (o loyalty shares), uno sguardo al di là del confine permetterà di scoprire che in Francia esse sono addirittura previste come regola di default per le società quotate. Non si deve, inoltre, scordare, che invero tali figure non costituiscono una novità assoluta nemmeno per il nostro ordinamento: il Codice di Commercio del 1882, infatti, se vietava l’emissione di azioni con qualsiasi forma di limitazione o addirittura privazione del diritto di voto, ammetteva, invece, quella di azioni a voto plurimo[1]. Sul piano dell’innovatività degli istituti in sè, quindi, parrebbe esservi poco da dire; per contro, [continua..]

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